Wednesday, June 28, 2006

Le riforme non s'anno da fare

Riportiamo qui di seguito l'interessante editoriale dell'Elefantino di ieri 27 giugno 2006

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L’andazzo conviene a tutti,
e da sessant’anni in Italia
le riforme sono impossibili
Perché la disfatta
L’Italia nel tempo è cambiata eccome,
con le partecipazioni statali, con la Cinquecento
e le autostrade, con la partecipazione
all’euroburocrazia di Bruxelles e la
mezza riforma agraria, con il guizzo modernizzatore
del divorzio e dell’aborto, poi con
l’importazione cauta e parziale delle filosofie
di mercato, con le legnate agli operai
della Fiat, con l’inflazione, con la scala mobile
giocata infine alla roulette di un referendum,
con la tv a colori, con la tv commerciale
e il nuovo business della pubblicità,
con la delegittimazione violenta della
classe dirigente che aveva fatto la Costituzione
in seguito alla caduta del muro di
Berlino, con l’alternanza determinata dalla
nuova legge elettorale; l’Italia è cambiata
ed è andata avanti con opportuni calci di
rigore al novantatreesimo
minuto grazie a uno dei
tanti sistemi-Moggi in giro
per il mondo, ma non
è mai prevalso da noi un
disegno organico intorno
al quale si costituisse
una classe dirigente,
i poteri sono
sempre rimasti smagliati
e ridondanti, dispersi
tra il fascino fragile
dei soldi e quello della professione
politica, con la nuova figura del
magistrato ormai stabilmente in sella
una intercettazione dietro l’altra.
Le mani sulla soubrette siamo
in grado di metterle, ma giù
le mani dalla Costituzione del
’48, questa vecchia attrice gloriosa,
questa Francesca Bertini che piange
e ride tra i tendaggi del salotto buono di casa.
Una riforma politica a progetto, seria e
consapevole, non l’abbiamo in sostanza mai
vista, e appena qualcuno si è messo a fare
lo statista, abile e tenace nel gioco dei partiti
o populista e forte nell’immagine, il sistema
se lo è mangiucchiato dopo epiche
resistenze. Antonio Gramsci non era certo
uno stupido e ci aveva avvertito, qui da noi
si accettano solo rivoluzioni passive, egemonie
costruite nel tempo e risultanti da
effetti speciali che nascono e muoiono nella
società senza toccare la forma dello stato,
il senso della politica, la libertà e la responsabilità
dei cittadini, che in quanto tali
non esistono, sono un agglomerato informale
alla permanente ricerca di una buona
protezione, un vulgo disperso che nome
non ha (tutti, noi compresi).
Voto inintelligente, ma molto furbo
Una disfatta di queste proporzioni non
era prevedibile, da un quarto di secolo
chiunque si è convinto che il premier deve
avere poteri effettivi e non essere costretto
a lavorare come un re travicello al servizio
di lobby e partiti, che la navetta delle leggi
tra Camera e Senato è una perdita di tempo,
di soldi, di efficienza e di senso del governo
della cosa pubblica, che il numero dei parlamentari
è incommensurabilmente più alto
del necessario, che il Quirinale è un palcoscenico
ambiguo sul quale possono essere
interpretati troppi e disinvolti ruoli in
commedia, che alla fine poteri veri e responsabilità
vere bisogna decentrarli, compreso
il fisco. Posti di fronte a un bivio, quasi
per caso, dopo una non entusiasmante cavalcata
riformatrice cominciata in una baita
di montagna, coi calzoni alla zuava e sotto la
spinta pugnace ma rozza dei leghisti, abbiamo
risposto a valanga che volevamo continuare
per la stessa strada di sempre. Infatti,
conviene. E questa è l’unica persuasiva spiegazione
della disfatta. Il “paese senza” di Alberto
Arbasino, ovvero la società senza stato,
non ha alcun interesse a rimodulare le
istituzioni, ad affermare un ruolo di comando
del vertice repubblicano. Anche il mitico
Nord si è autoilluso e autodeluso, non ha la
forza, l’intelligenza e la cultura per opporre
qualcosa di significativo alle Dandini, agli
Scalfaro e ad altri showmen dello swing conservatore
che va per la maggiore da sessant'anni

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