Wednesday, June 28, 2006

Non avevamo proprio capito

Non avevamo proprio capito!

Siamo stati lungamente incerti su come votare al referendum "costituzionale". Istintivamente eravamo per il no: i costi dell decentramento sono sempre elevatissimi, e questa storia della "devolution-e" senz'altro avrebbe incrementato ancor di piu' le spese "pubbliche".
Quando pero' abbiamo visto che a capo del comitato per il no c'erano dei novantenni capitanati nientemeno che da Oscar Luigi Scalfaro, immediatamente ci siamo sentiti attratti dal si: non se ne puo' piu' del conservatorismo degli italiani (e a questo proposito vi invito a leggere il bellissimo articolo del mio amico Giuliano che segue questo post).

Alla fine abbiamo votato SI e (ovviamente) abbiamo perso (coi referendum ci siamo piu' che abituati!). Ma non avevamo capito niente: il fronte del SI era capitanato dall'Ulivo, e per il no si batteva lo schieramento guidata dall'ex Sua Emittenza. Lo abbiamo capito solo oggi, guardando i manifesti affissi per Como, come quello riportato in fotografia.

Cris Marabotto, 28 giugno, 2006

Le riforme non s'anno da fare

Riportiamo qui di seguito l'interessante editoriale dell'Elefantino di ieri 27 giugno 2006

---------------------------------------

L’andazzo conviene a tutti,
e da sessant’anni in Italia
le riforme sono impossibili
Perché la disfatta
L’Italia nel tempo è cambiata eccome,
con le partecipazioni statali, con la Cinquecento
e le autostrade, con la partecipazione
all’euroburocrazia di Bruxelles e la
mezza riforma agraria, con il guizzo modernizzatore
del divorzio e dell’aborto, poi con
l’importazione cauta e parziale delle filosofie
di mercato, con le legnate agli operai
della Fiat, con l’inflazione, con la scala mobile
giocata infine alla roulette di un referendum,
con la tv a colori, con la tv commerciale
e il nuovo business della pubblicità,
con la delegittimazione violenta della
classe dirigente che aveva fatto la Costituzione
in seguito alla caduta del muro di
Berlino, con l’alternanza determinata dalla
nuova legge elettorale; l’Italia è cambiata
ed è andata avanti con opportuni calci di
rigore al novantatreesimo
minuto grazie a uno dei
tanti sistemi-Moggi in giro
per il mondo, ma non
è mai prevalso da noi un
disegno organico intorno
al quale si costituisse
una classe dirigente,
i poteri sono
sempre rimasti smagliati
e ridondanti, dispersi
tra il fascino fragile
dei soldi e quello della professione
politica, con la nuova figura del
magistrato ormai stabilmente in sella
una intercettazione dietro l’altra.
Le mani sulla soubrette siamo
in grado di metterle, ma giù
le mani dalla Costituzione del
’48, questa vecchia attrice gloriosa,
questa Francesca Bertini che piange
e ride tra i tendaggi del salotto buono di casa.
Una riforma politica a progetto, seria e
consapevole, non l’abbiamo in sostanza mai
vista, e appena qualcuno si è messo a fare
lo statista, abile e tenace nel gioco dei partiti
o populista e forte nell’immagine, il sistema
se lo è mangiucchiato dopo epiche
resistenze. Antonio Gramsci non era certo
uno stupido e ci aveva avvertito, qui da noi
si accettano solo rivoluzioni passive, egemonie
costruite nel tempo e risultanti da
effetti speciali che nascono e muoiono nella
società senza toccare la forma dello stato,
il senso della politica, la libertà e la responsabilità
dei cittadini, che in quanto tali
non esistono, sono un agglomerato informale
alla permanente ricerca di una buona
protezione, un vulgo disperso che nome
non ha (tutti, noi compresi).
Voto inintelligente, ma molto furbo
Una disfatta di queste proporzioni non
era prevedibile, da un quarto di secolo
chiunque si è convinto che il premier deve
avere poteri effettivi e non essere costretto
a lavorare come un re travicello al servizio
di lobby e partiti, che la navetta delle leggi
tra Camera e Senato è una perdita di tempo,
di soldi, di efficienza e di senso del governo
della cosa pubblica, che il numero dei parlamentari
è incommensurabilmente più alto
del necessario, che il Quirinale è un palcoscenico
ambiguo sul quale possono essere
interpretati troppi e disinvolti ruoli in
commedia, che alla fine poteri veri e responsabilità
vere bisogna decentrarli, compreso
il fisco. Posti di fronte a un bivio, quasi
per caso, dopo una non entusiasmante cavalcata
riformatrice cominciata in una baita
di montagna, coi calzoni alla zuava e sotto la
spinta pugnace ma rozza dei leghisti, abbiamo
risposto a valanga che volevamo continuare
per la stessa strada di sempre. Infatti,
conviene. E questa è l’unica persuasiva spiegazione
della disfatta. Il “paese senza” di Alberto
Arbasino, ovvero la società senza stato,
non ha alcun interesse a rimodulare le
istituzioni, ad affermare un ruolo di comando
del vertice repubblicano. Anche il mitico
Nord si è autoilluso e autodeluso, non ha la
forza, l’intelligenza e la cultura per opporre
qualcosa di significativo alle Dandini, agli
Scalfaro e ad altri showmen dello swing conservatore
che va per la maggiore da sessant'anni

Saturday, June 17, 2006

L'Italia ce la puo' fare

Pubblichiamo il manifesto "L'italia ce la puo' fare", riportato a pagina 2 del Sole 24 ore di oggi sabato, nella speranza che in molti aderiscano.

Nel nostro piccolo lo abbiamo già fatto personalmente, cosi' come hanno aderito Fiorella Kostoris Padoa Schioppa, Chicco Testa, Francesco Giavazzi ed altri .

Per aderire e' sufficiente cliccare...qui: http://www.radicali.it/appello_outsider/form.php

Cris Marabotto, 17 giugno 2006
-------------------------------------------------------------------------
"L’ITALIA CE LA PUO’ FARE"

riforme strutturali, concorrenza e liberalizzazioni, 7 giorni per aprire un’impresa, il nodo dei salari più bassi d’Europa

L’Italia ce la può fare. E’ ancora possibile invertire la rotta sia rispetto ai segni concreti di declino, sia rispetto alla retorica del "declino inevitabile". La crisi italiana è vera e profonda, ma troppo spesso è descritta come ineluttabile ed irreversibile. Non è così.

Certo, occorre voltare pagina. Un sistema dei partiti vecchio, eppure ancora troppo potente e costoso, inchioda il paese e la politica italiana a risse di fazioni, a scontri di tifoserie: e da oltre un decennio, a maggioranze troppo timide rispetto alle grandi urgenze di cambiamento, si contrappongono opposizioni dedite a tentare di scalzare e demonizzare i Governi, ma incapaci di sfidarli sul terreno di solide controproposte di riforma. Così, si moltiplicano le occasioni e i fenomeni di sterile conflittualità, che fanno il gioco delle componenti più illiberali e conservatrici dei due schieramenti, così come delle mille lobby impegnate a proteggere i propri privilegi, mentre si impediscono quei confronti che nutrono le democrazie, rendono più saldo il tessuto civile e aiutano il prevalere, dentro e fuori i Poli maggiori, delle forze liberali e riformatrici.

Per questo, occorre una terapia d’urto, e bisogna ripartire da un’attenzione nuova alla questione sociale del nostro tempo. Servono non maggiori protezioni ma una più concreta offerta di chances al popolo dei "non garantiti": occorre un vero e proprio "statuto degli outsider", di quanti (consumatori, giovani, imprenditori del rischio e dell’innovazione, donne, lavoratori del privato, disoccupati, sottoccupati, pensionati sociali e al minimo, immigrati) sono e restano fuori dal fortino delle garanzie e dei privilegi. Questa Italia degli "outsider", dei "non garantiti", di fatto priva di tutele, è oggi senza volto e senza voce, silenziata prima ancora che silenziosa.

Condizione preliminare, senza dubbio, è rappresentata dal risanamento dei conti pubblici. Esprimiamo per questo fiducia e sostegno nell’opera del Ministro dell’Economia. Ma, nello stesso tempo, riteniamo che vi siano altre tre priorità da incardinare ed affrontare.

1. L’economia italiana non ripartirà finché non verrà liberata dai mille vincoli che bloccano la concorrenza e consentono l’accumularsi di rendite pagate dagli outsider. Occorre imboccare con decisione la via delle liberalizzazioni: questa deve essere la priorità della politica economica. In questo senso, proponiamo alcune concrete e urgenti possibilità di intervento, che dovrebbero accompagnarsi ad un rinnovato sforzo e a significativi investimenti delle imprese (sostenute, in questo, da una decisa iniziativa politica a livello nazionale e locale) nell’innovazione di processo e di prodotto, anche come condizione per un’effettiva capacità di attrarre nuove risorse e di competere su scala internazionale.

a. La competizione e la liberalizzazione nel settore dei servizi di pubblica utilità, anche a livello locale, in una corretta suddivisione dei ruoli tra pubblico e privato, è una priorità assoluta per il paese. Come ha sottolineato il Governatore della Banca d’Italia, la concorrenza è per definizione un agente di giustizia sociale: e il superamento delle rendite monopolistiche e oligopolistiche, con relativa riduzione dei costi dei servizi, è un fattore fondamentale di miglioramento delle condizioni di vita in primo luogo delle fasce più povere della popolazione.

b. Servono azioni concrete in termini di "riforme senza spesa": ad esempio, il superamento degli ordini professionali (per contribuire a riaprire una società chiusa, segnata dal peso di lobby e corporazioni), e l’abolizione del valore legale del titolo di studio universitario (per garantire uno shock nel segno della competizione positiva, dell'invito ai giovani a scommettere su di sé più che sul possesso di un pezzo di carta).

c. Occorre ridurre a 7 giorni al massimo il tempo necessario all’apertura di una nuova impresa, comprimendo tempi e caratteristiche degli adempimenti amministrativi, o comunque generalizzando criteri di silenzio-assenso e di autocertificazione: intanto, l’impresa apra e proceda, e poi provveda al completamento dell’iter burocratico.

2. Non è possibile rinviare ancora l’apertura del dibattito sulle riforme strutturali, in Italia ferme da troppo tempo, e sempre differite e rinviate. E’ necessario che da subito, e comunque nella prima parte della legislatura, si ponga mano alla questione della sanità, del pubblico impiego e delle pensioni, a partire dall’innalzamento dell’età media effettiva di pensionamento, in una nuova alleanza tra padri e figli, e con atti di generosità dei primi nei confronti dei secondi. Ma attenzione, i tagli da soli non servono. Interventi finanziari non accompagnati da un cambiamento delle regole sono effimeri: occorre cambiare le regole che sono alla base della crescita della spesa pubblica.

3. In termini di mercato del lavoro, occorre ripartire dal Libro Bianco di Marco Biagi. Certo, non possono essere solo i lavoratori a correre i rischi della flessibilità: ma sbarazzarsi della Legge 30 sarebbe un grave errore. Va invece riequilibrata e completata, e proprio nella direzione del Rapporto Biagi, e quindi riscrivendo il sistema degli ammortizzatori sociali, che in questo paese hanno finito spesso per tutelare troppo pochi (su 100 persone che perdono il lavoro, in Italia, solo 17 hanno una qualche forma di tutela). Ecco perché bisognerebbe -invece- pensare al modello inglese, con un sussidio di disoccupazione, e un meccanismo di "welfare to work". Contestualmente, occorre affrontare il nodo dei salari italiani, tuttora tra i più bassi d’Europa. E’ necessario e possibile detassare per cinque anni gli aumenti salariali, e prevedere una riforma dei contratti che leghi la parte variabile dei salari ai risultati raggiunti e alla produttività. I sacrifici non possono essere sostenuti da una sola parte.

Occorre più coraggio. E una coraggiosa politica di riforme e di modernizzazione avrebbe la doppia caratteristica di rimettere il paese in movimento e -insieme- di aiutare i più deboli.

Ha detto Tony Blair: "Ogni volta che ho introdotto una riforma, mi sono pentito solo di non essermi spinto ancora più avanti". Invitiamo Governo, Parlamento, forze politiche e sociali a tenere questa citazione come monito e come bussola.

____________

appello promosso da Daniele Capezzone
(Presidente della Commissione Attività produttive della Camera)

questi i nomi di alcuni tra i primi firmatari:

- Alberto Alesina, Economia, Harvard University
- Giuliano Da Empoli, Direttore di "Zero"
- Gian Maria Fara, Presidente dell’Eurispes
- Natale Forlani, Amministratore Delegato di "Italia Lavoro"
- Oscar Giannino, Vicedirettore di "Finanza e Mercati"
- Francesco Giavazzi, Economia, Università Bocconi di Milano
- Massimo Lo Cicero, Economia dello sviluppo, Università di Roma La Sapienza
- Pio Marconi, Sociologia del diritto, Università di Roma La Sapienza
- Alberto Mingardi, Direttore generale Istituto Bruno Leoni
- Fiorella Kostoris Padoa Schioppa, Economia, Università di Roma La Sapienza
- Fabio Pammolli, Direttore di "Istituzioni Mercati Tecnologie"
- Gaetano Romano, Presidente Associazione Nazionale Praticanti e Avvocati
- Florindo Rubbettino, Editore
- Luca Solari, Direttore del Centro di ricerca interdipartimentale Work, Training & Welfare, Università degli Studi di Milano
- Carlo Stagnaro, Direttore dipartimento "Ecologia di mercato" Istituto Bruno Leoni
- Secondo Tarditi, Economia, Università di Siena
- Chicco Testa, già Presidente dell’Enel

Sunday, June 11, 2006

L'Allergia a Zapatero

Ricorderete che alle scorse elezioni - in qualità di cittadini europei - abbiamo espresso il desiderio di votare Zapatero. Purtroppo non e' stato possibile, e nel frattempo e' cresciuta nei vincitori delle elezioni stesse l'allergia verso il nostro Eroe. Eccone un'interessante analisi di Barbara Spinelli, prendetevi due minuti e leggetela a fondo!

Cris Marabotto, 11 giugno 2006


L'allergia italiana a Zapatero di B.Spinelli


SE c’è un nome che in Italia quasi non puoi pronunciare, senza sentirti come appesantito da ridicolo cappotto, è il nome di Luis Rodríguez Zapatero. È una sorta di allergia radicale, accanita, che in nessun paese europeo ha l'accaldata intensità italiana e su cui vale dunque la pena meditare. Zapaterista è diventato epiteto insultante, che macchia il destinatario indelebilmente. Zapaterismo è sinonimo di stile politico ignobile: più ignobile ancora d'una dottrina, un'ortodossia. Nel pantheon dei personaggi negativi, il premier spagnolo figura accanto a tipi poco raccomandabili che non gli somigliano punto: Che Guevara, Castro. Deriva zapaterista è stereotipo che potrebbe benissimo comparire nel Dizionario dei Luoghi Comuni di Flaubert: evoca gli impaurenti cosacchi a San Pietro, ha osservato con appropriata ironia Mario Pirani (Repubblica, 13-3-06). Più che un'allergia è una passione, quella che s'abbatte sul successore di Aznar. Per questo urge indagarne l'interna molla, l'irrazionalità, la genealogia: non solo per capire meglio la Spagna, ma per capire un po' meglio noi stessi e la nostra idea della democrazia minacciata.

Tre eventi hanno indisposto un gran numero di politici e intellettuali italiani, dando corpo allo stereotipo che ci impacchetta e ci incarta: la vittoria elettorale del leader spagnolo, successiva all'attentato dell'11 marzo 2004; la decisione - subito dopo - di ritirare le truppe dall'Iraq; la determinazione con cui Madrid resiste a clero e Vaticano in materia di diritti civili. Zapatero è divenuto simbolo del cedimento al terrorismo, del Tutti a Casa in politica estera, dell'anticlericalismo dogmatico. (...)

Il nuovo consiste nell'estendere i diritti e le libertà di individui o minoranze, accettando l'enorme varietà delle preferenze esistenziali in società rese insicure da disoccupazione, immigrazione, terrorismo. I soldi mancano per politiche sociali magnanime, agire sull'economia è divenuto tremendamente complicato a causa di vincoli e incompatibilità: meglio allora concentrarsi sulle riforme «a costo zero» - riforme civili più che economiche, dice Antonio Gutiérrez che oggi dirige la Commissione economica del Congresso dei deputati - che danno al cittadino la sensazione di essere ascoltato, rispettato anche quando la vita si fa per lui difficile. Zapatero ha fatto molto in questo campo: ha esteso i Pacs accettati da Aznar rendendo legali i matrimoni tra omosessuali, ha sveltito la legge sul divorzio, ha legalizzato 800 mila immigrati clandestini trasformandoli in cittadini con diritti e doveri fiscali, ha introdotto una legge sulla violenza contro le donne. A queste ha aperto uno spazio senza eguali in Occidente (il 50 per cento delle cariche governative). Ha anche fatto riforme che costano, come gli asili nidi e gli aiuti alle persone non autosufficienti per età o malattia (il cosiddetto quarto pilastro dello Stato sociale, essenziale in società che invecchiano, affiancato a educazione, salute, pensioni). Può darsi che le riforme siano state troppo frettolose: «Non si fa tempo a rispondere al contrattacco della destra e della Chiesa, che il governo già ha aperto un nuovo fronte riformatore», obietta Gutiérrez, che però sostiene Zapatero perché le sue sono pur sempre riforme volute da vaste maggioranze di spagnoli.

Precisamente questa novità indispettisce tanti politici e intellettuali italiani, anche a sinistra. Indispettisce lo spazio dato alla società civile e ai diritti, a scapito non solo della centralità dell'economia ma dei poteri partitici (Prodi stesso fu guardato con diffidenza da apparatchik e benpensanti di sinistra quando propose le primarie, fino al momento in cui le vinse alla grande). Indispettisce quella che per Zapatero è etica politica irrinunciabile: «Mantenere la parola data, fare quel che si dice e dire quel che si farà». Indispettisce, più ancora forse del ritiro dall'Iraq e della strategia latino-americana, l'autonomia dalla Chiesa. Resistere al Papa e alle Conferenze episcopali è inconcepibile, oggi in Italia. Tutti in Italia hanno bisogno di ottenere l'imprimatur da una forza esterna, tutti si sentono in qualche modo minorenni e illegittimi - non solo i Ds - e la Chiesa diventa tutore che non si osa contestare. Ogni riformista deve fare da noi concessioni sulla laicità: Zapatero problemi simili non ne ha. È alle correnti conciliari che egli s'appoggia, a teologi come Enrique Miret Magdalena che nel laico argomentare somiglia al nostro Enzo Bianchi. Solo che Miret Magdalena non è ingiuriato quando ricorda che lo Stato e l'Europa sono aconfessionali, e che fin dalla teologia cinquecentesca di Domingo De Soto o padre Molina «la legge civile è fatta per garantire la convivenza tra i cittadini, non per garantire la morale cattolica». In Spagna è pietra di scandalo che il Papa parli di silenzio di Dio a Auschwitz, e appena nove giorni dopo lasci che lo stesso concetto («eclissi di Dio») sia applicato dal Vaticano a unioni di fatto o matrimoni omosessuali. Non da noi.

Indispettisce infine il rapporto di Zapatero con il passato franchista. Il premier inaugura una politica della memoria che prima era assente, e questo accade nel preciso momento in cui in Italia la memoria accende risse, e la resistenza è ridimensionata. Tutte queste mosse irritano perché scombinano tesi apparentemente dissacranti, ma che in fondo hanno generato nuovi allineamenti. Molto è cambiato da noi ma il conformismo delle élite sembra immutato: è antico, tenace, Jean-François Revel lo denunciava già nel '58, nel libro Pour l'Italie. Per conformismo più che per convinzione si plaude oggi al Papa, e a valori europei uniformi. Per conformismo si dice che la sinistra è buona solo se fa politica di destra, e si scorge in Blair l'unico vero modello. Per conformismo si sostiene che l'etica in politica è qualcosa d'incongruo e risibile: gradito solo a girotondini, attori comici e zapateristi. Qualche giorno fa, replicando a un articolo che sospettava Prodi di ritirarsi dall'Iraq senza coscienza morale, D'Alema ha detto parole che in Italia hanno la freschezza delle dichiarazioni inedite: «La coerenza fra gli impegni che si assumono con i cittadini e le cose che si fanno è a mio avviso un aspetto cruciale del rapporto fra etica e politica» (Corriere della Sera, 30-5-06). È proprio questa l'etica di Zapatero, chiamata da noi deriva e a Madrid mantenimento della parola data. Il conformismo italiano mescola cattolicesimo e economicismo marxista. Neppure s'accorge che le sinistre estreme sono oggi marginali in Spagna, grazie alla preminenza di diritti e laicità sulla classica questione sociale.

In realtà Zapatero innova rispetto a Blair, anche se fa proprie molte sue accortezze economiche. Ha meditato la crisi della democrazia, della politica, e la sua terza via non è quella che aderisce al liberismo e al conservatorismo Usa rinunciando all'identità di sinistra. Come si evince nel libro di Calamai e Garzia, altri sono i riferimenti di Zapatero. Fra questi spicca Philip Pettit, lo studioso che ha teorizzato il repubblicanesimo e il socialismo dei cittadini (i suoi libri son pubblicati da Feltrinelli e dall'Università Bocconi). Nella parola socialdemocratico - dice Zapatero - è il democratico che prevale. Pettit propone un'idea di libertà né liberista né socialista: un'idea più esigente della libertà negativa (libertà dall'interferenza); e meno comunitarista della libertà positiva, che persegue fini collettivi o statali in nome di tutti.

Per il repubblicanesimo può non sussistere interferenza ma può esserci dominio, ed è questo dominio - la paura è una delle sue armi - che occorre controbilanciare con leggi che prevengano sul nascere interferenze sia reali sia potenziali, spingendo gli individui a partecipare alla politica e a contare sullo Stato. Fondamentale, in Pettit, è la vigilanza dei cittadini: «l'eterna vigilanza» nei confronti delle autorità, delle istituzioni, delle degenerazioni tiranniche. Per questo è indispensabile il pluralismo dell'informazione e il rifiuto dei monopoli televisivi, in Pettit come in Zapatero. In una delle prime mosse, quest'ultimo ha restituito al servizio pubblico piena autonomia dal potere politico (un po' come chiesto dall'Usigrai, sindacato dei giornalisti Rai, in una lettera a Prodi del 5 giugno).

Un'altra cosa dice Zapatero, che spiega i pregiudizi italiani nei suoi confronti: «Le persone che meglio sanno esercitare il potere sono quelle che non lo amano». Chi lo ama troppo non ritiene che il mondo vada cambiato per il meglio, usando come alibi i passati errori del socialismo: ciò di cui ha orrore è il rischio, e chi rischia mette sempre in gioco il proprio potere.

Si dice che in un'economia dissestata la sinistra ha pochi margini, per forza. Che il terrorismo restringe diritti e libertà, per forza. Che non esiste quindi vero scontro destra-sinistra. Zapatero con tutte le sue precipitazioni dimostra che non è vero, che niente avviene fatalmente, che la politica è l'arte di creare isole di libertà nel mare della necessità. Isole che permettono ai Giusti di Borges - autore che Zapatero cita spesso, di cui si dichiara «estimatore fino all'ossessione» - di esistere: l'uomo giusto è «chi preferisce che abbiano ragione gli altri», i Giusti «che si ignorano stanno salvando il mondo». Il conformismo che affligge l'Italia politica ha come fine la conservazione del potere, più che l'emergere del giusto. Anche accettare un mondo interamente dominato dalla necessità è conformismo. Un conformismo meno diffuso nella società, che i rischi li teme ma non li respinge.

Per questo Zapatero è figura significante. Lui stesso racconta come adottò l'etica della parola data. Fu quando, il giorno della vittoria, sentì gli spagnoli gridare: No nos falles!- Non ci deludere! Lì capì - dice - che «il potere è nelle mani di chi il potere non ce l'ha». Che chi governa deve sempre dire: «Il potere non mi cambierà». Che per far rinascere la politica, la partecipazione dei cittadini, la loro responsabilità, occorre estendere diritti e democrazia. Non a dispetto del terrorismo e dell'economia, ma proprio perché viviamo tempi di terrorismo e di difficoltà economica.

Tuesday, June 06, 2006

Terremoto nel Belice!

Ieri sera abbiamo "fatto benzina" in Italia (in genere preferiamo "farla" a Chiasso, ma non sempre si fa a tempo), e abbiamo notato che il prezzo è curiosamente superiore a quello praticato in Svizzera.


Strano, perche' la Svizzera non ha giacimenti, ed i costi del trasporto sono praticamente identici a quelli verso l'Italia. Per cercare di capirne il motivo abbiamo fatto qualche ricerca e abbiamo scoperto la parola "ACCISA", cosi' definita da Wiki:

------------------

Per accisa si intende una imposta sulla fabbricazione e sul consumo.

È un tributo indiretto che colpisce singole produzioni e singoli consumi. In Italia le accise più importanti sono quelle relative agli oli minerali (derivati dal petrolio), agli alcolici e ai tabacchi.

L'armonizzazione dei testi normativi in materia di accise dei 25 Stati membri dell' Unione Europea è entrata in vigore il 1 gennaio 2005. Il formato standard del nuovo codice di accisa è composto da 13 caratteri alfanumerici. I primi due identificano lo Stato nel quale opera il soggetto assegnatario del codice (IT per l'Italia).

--------------------

A parte l'interessantissima digressione sul codice "IT" per capire quali sono le ACCISE Italiane, abbiamo dunque cercato quali siano queste ACCISE che gravano sulla benzina, ed ecco qui:

La prima accise sulla benzina di 1,90 lire nel 1935 per finanziare la guerra di Abissinia, quella di 14 lire per la crisi di Suez nel 1956, quella di 10 lire per il disastro del Vajont nel 1963, le 10 lire per far fronte all'alluvione di Firenze nel 1966, le 10 lire per il terremoto nel Belice nel 1968, le 99 lire per il terremoto del Friuli nel 1976, le 75 lire per il terremoto in Irpinia nel 1980, le 205 lire per la missione in Libano, le 22 lire per la missione in Bosnia nel 1996.

La penultima accise la ritroviamo soltanto nel 2003 per trovare i fondi necessari al rinnovo del contratto degli autoferrotranvieri, circa 0,02 euro di accise addizionale sui carburanti. L'ultima accise, decisa nel febbraio 2005, servirà per finanziare il rinnovo degli autobus inquinanti nel trasporto pubblico.

Ecco dunque spiegato: occorre ricostruire il Belice, ed in fretta (anche) per questo la benzina costa di piu': ci vergognamo come cani per aver fatto benzina in Svizzera, promettiamo di non farlo piuì', e cercheremo di sbagliare "in eccesso" il calcolo dell'ICI (o dell'IRAP, o dell'IRPEF, o dell'ILOR, o del 8 per mille, o del 5 per mille, o dell'addizionale termica, ecc.) non appena possibile. Giusto per aiutare i concittadini del Belice.

Cris Marabotto, 6 giugno 2006